ANDREOTTI E LA VERA STORIA DELL’ITALIA DI OGGI
Articolo pubblicato in Spagna da “deia.com” l’8 maggio 2013
Scritto da Txema Montero, avvocato e politico dei Paesi Baschi
Tradotto da “Italia dall’Estero”
Venti volte ministro e sette volte primo ministro, la sua storia può essere forse quella della stessa Repubblica o, almeno, quella dell’Italia che tremava tra Brigate Rosse, Loggia P2 e mafia, e che offriva una prospettiva terrificante agli USA, quella di un governo comunista.
“Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, on. Andreotti, è proprio questo che Le manca. Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po’ più, un po’ meno, ma passerà senza lasciare traccia”. Chi scriveva parole così dure al recentemente scomparso Andreotti era Aldo Moro, suo compagno di militanza nella Democrazia Cristiana, il partito che fu la spina dorsale della politica italiana durante la seconda metà del secolo scorso.
Moro era stato rapito dalle Brigate Rosse nel marzo del 1978. Durante i 54 giorni del suo sequestro scrisse diverse lettere a suo figlio; a Cossiga, ministro degli Interni e poi Presidente della Repubblica; a Zaccagnini, presidente del suo partito; a Taviani e Fanfani, celebri ministri e militanti. In tutte le sue lettere implorava un accordo tra lo Stato ed i terroristi che gli potesse salvare la vita. Andreotti era il destinatario delle parole, all’epoca non pubblicate, che danno inizio al presente articolo.
Senza menzionarlo, replicò in televisione: “Quale sarebbe la reazione dei carabinieri, dei poliziotti, degli agenti di custodia se il governo, alle loro spalle, violando la legge, premiasse chi ha fatto scempio della legge stessa? E che cosa direbbero le vedove, gli orfani, le madri di coloro che sono caduti nell’adempimento del proprio dovere?”. Il cadavere di Moro fu trovato nel portabagagli di una Renault 4 in una strada tra via delle Botteghe Oscure, dove si trovava la sede del Partito Comunista Italiano, e Piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana. Le Brigate Rosse pretendevano in questo modo simbolico di rendere corresponsabili dell’assassinio i due grandi partiti.
Le ipotesi sulla relazione tra l’omicidio di Moro e la passività di Andreotti presero subito il volo. Cominciando dalla stessa famiglia dell’assassinato, che emise il seguente comunicato: “La famiglia desidera che non ci sia nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”.
Le ipotesi (era il 1993) presero la forma di prove di reato quando Tommaso Buscetta, primo capomafia pentito, cominciò a collaborare con i giudici dopo che gran parte della sua famiglia era stata sterminata per mano di Cosa Nostra. E ciò che rivelò Buscetta fu spaventoso. Andreotti, soprannominato anche Belzebù, avrebbe chiesto alla mafia siciliana di assassinare il giornalista legato ai servizi segreti Mino Pecorelli, che lo voleva ricattare rendendo pubblici certi documenti che avrebbero provato l’interesse di Andreotti nella morte di Moro.
Inoltre Andreotti sarebbe il rappresentante e protettore dei mafiosi a Roma e il loro socio in Sicilia, dove la Democrazia Cristiana aveva il suo particolare bacino elettorale e dove i suoi accoliti, in particolare Salvo Lima – sindaco di Palermo dello stesso partito di Andreotti ed eurodeputato – assegnavano permessi per costruire alle imprese mafiose in cambio di voti. Ancora di più, Andreotti ordinava le esecuzioni di coloro che avrebbero potuto compromettere i loschi traffici della Banca Vaticana, come il banchiere Sindona, avvelenato in carcere; o Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata, che di fronte alle dimensioni della corruzione che stava scoprendo e che toccava le cariche più alte dello Stato, aveva preso la precauzione di registrare le telefonate che riceveva. Tra le altre, la seguente conversazione:
– Anonimo: “Sono a Roma, e puntano il dito tutti sopra di lei, come se è lei che non vorrebbe collaborare”
– Ambrosoli: “A chi si riferisce?”
– Anonimo: “Al gran capo”.
– Ambrosoli: “Chi è il gran capo?”.
– Anonimo: “Ora hai capito. Il gran capo ed il piccolo capo, tutti ti danno la colpa”.
– Ambrosoli: “Suppongo che il gran capo sia Sindona”.
– Anonimo: “No, è Andreotti!”.
– Ambrosoli: “Come? Andreotti?”.
– Anonimo: “Esatto, ha chiamato e ha detto che si era occupato di tutto, ma la colpa è tua, stai attento”.
Non ci riusci’, perché la registrazione arrivò in mani sbagliate e Ambrosoli fu assassinato nel luglio del 1979. Fu l’anno del regolamento dei conti. Il giornalista Mino Pecorelli, l’abbiamo già detto, morì con cinque colpi di arma da fuoco, tra cui uno molto eloquente: in piena bocca. Pecorelli, giornalista di estrema destra e assolutamente caro ai suoi colleghi, aveva accesso a materiale riservato dei servizi segreti.
Sosteneva che Andreotti era il leader di fatto della Loggia Propaganda 2 che, con il pretesto di difendere la democrazia dall’ascesa del Partito Comunista, coordinava tutti i movimenti paramilitari e istigava e manipolava il terrorismo di estrema destra. Si supponeva che avesse inoltre ottimi rapporti con la CIA americana. L’Italia era all’epoca l’unico paese europeo in cui i comunisti potevano raggiungere il potere grazie alle urne. Un elettore italiano su tre arrivò a votarli.
Tale quantità di voti si sarebbe avvicinata alla maggioranza se il cosiddetto Compromesso Storico tra i comunisti e la sinistra della Democrazia Cristiana fosse diventato realtà. Un panorama terrificante per gli USA: il comunismo al governo della terza potenza economica dell’Europa e la settima del mondo. Nemmeno le Brigate Rosse erano per l’accordo, che avrebbe addomesticato definitivamente la classe operaia italiana, inserendo nel potere borghese il partito che rappresentava i suoi interessi. Moro era stato processato, non sequestrato.
E Andreotti? La sua carriera raggiunse, quasi, il culmine quando aspirò alla Presidenza della Repubblica nel 1992, unico incarico non ricoperto, dato che era stato 20 volte ministro e 7 volte primo ministro. La bomba che uccise il giudice Falcone e sua moglie, innescata da un mafioso soprannominato Scannacristiani, fu recepito come un segnale della mafia perché tutto il mondo capisse che Andreotti non era più dei suoi, e che come Presidente della Repubblica sarebbe stato ostaggio del suo passato e per questo vulnerabile. L’apice della sua carriera lasciò spazio al suo lungo ed agonico finale.
Giudicato dal Tribunale di Palermo fu assolto per prescrizione dei reati di associazione mafiosa, anche se obbligato a pagare un indennizzo. Processato dal Tribunale di Perugia per l’omicidio Pecorelli, è stato in seguito assolto, condannato a 27 anni di prigione e di nuovo assolto dalla Cassazione. Durante le interminabili udienze, Andreotti, impavido e noncurante di quanto si diceva nella sala, si dedicava alla lettura di Santa Teresa di Lisieux. Me lo raccontò il mio amico Alessandro Benedetti, avvocato presso l’ufficio di Galasso a Roma, accusatore di Andreotti in quel processo.
Benedetti, all’epoca sulla metà dei trent’anni, era ed è un cattolico praticante di sinistra, figlio di un generale dei carabinieri, ed il caso Pecorelli fu il suo primo grande processo come assistente procuratore. La sua posizione ideologica non piaceva al presidente Cossiga che, dopo aver saputo della mia relazione con Benedetti, in occasione della presentazione che feci su di lui in una conferenza della Fondazione Sabino Arana a Bilbao, non esitò a dirmi: “Il suo amico è un cattocomunista”, gioco di parole molto italiano, secondo me. Ebbene, durante la pausa di una delle sessioni del processo, Andreotti, uscendo dai suoi pensieri, si rivolse a Benedetti: “Giovane avvocato, si immagina cosa sarebbe successo in Italia se avesse vinto il Compromesso storico? Quello che è successo in Cile, un aneddoto”.
“Se non è vero è ben trovato”, dicono gli italiani stessi. E forse questa è la vera storia dell’Italia, quella occultata, quella raccolta da Giancarlo Caselli nel suo libro ben documentato La vera Storia d’Italia, un compendio di interrogatori, testimonianze, analisi e sentenze giudiziarie, non ancora tradotto in spagnolo, una passeggiata tra lo splendore e la morte , incredibile nella sua enormità e con lo scomparso Andreotti come attore principale. Se preferite qualcosa di più leggero ma ugualmente devastante, optate per il film di Paolo Sorrentino, Il Divo; chi è capace di reggere due ore di incontenibili emozioni avrà occasione di conoscere il Divino Andreotti. Cosi’ com’era.
In un’occasione, una giornalista gli chiese: “Lei crede che andrà in Paradiso?”. Andreotti rispose: “Certo, ma più per la bontà della Divina Provvidenza che per meriti miei”. Belzebù? Il Divino? Scegliete voi. In ogni caso, il povero Moro si sbagliava: Andreotti se ne è andato lasciando una profonda ed oscura traccia.